Il coraggio della bellezza per una città davvero “nuova”


L’Aquila – (di Carlo Di Stansilao) – Si sono battuti come leoni, in due giorni di autentica passione, i nostri tre parlamentari (De Angelis del Pdl, Lolli, Pd e Mantini, UDC), vincendo l’ostruzionismo della Lega e le resistenze del governo e portando a casa eccellenti variazioni e subemendamenti che consentono, in certe circostanze, contributi anche per le seconde case, nel testo finale della Legge per la ricostruzione.
Ed è stato gratificato da una proroga al bilancio e da una promessa che i 30 milioni necessari si troveranno, il nostro sindaco Massimo Cialente, che ha fatto la voce grossa con il Tesoro, senza minacciare, per ora, le dimissioni. Quindi i soldi ci sono e la volontà anche, ma ora si tratta di capire come ricostruire.
A partire dalla fine del Settecento l’affermarsi dell’ottica storicistica, ovvero della tendenza a interpretare le testimonianze artistiche del passato nel contesto culturale che era loro proprio, ha dato avvio al dibattito teorico tuttora in corso in cui si concepisce il restauro come evento tecnico-critico nel corso dell’esistenza dei monumenti e dei manufatti artistici.
Il restauro e, a maggior ragione la ricostruzione, nel periodo attuale, poiché l’opera d’arte è considerata sia come testimonianza dello sviluppo della cultura di un certo momento e di un certo luogo, sia come espressione dotata di un’autonoma sfera qualitativa, che va sottratta a ogni tentazione di aggiornamento e di reinterpretazione, devono da un lato assicurare la sopravvivenza materiale dell’opera, dall’altro mirare alla restituzione della sua veste originaria, fermo restando il rispetto di quei mutamenti intervenuti nel tempo sull’immagine (sia essa architettura, scultura o pittura), laddove si configurino come elementi qualificanti dal punto di vista estetico e funzionale.
In questo modo restauro e ricostruzione diventano una disciplina critica e non meramente tecnica, che trova nella dialettica tra progettista (architetto, storico dell’arte, archeologo), realizzatore (restauratore) e tecnici (chimici, fisici, biologi) la propria ragion d’essere.
Già nella prima metà dell’800, l’architetto e storico dell’arte francese Viollet-Le-Duc dopo un periodo di studio dell’arte greca e romana in Sicilia e a Roma, restaurando alcune chiese gotiche (Notre-Dame, l’abazia di Vezelay, Saint-Denis, Chartres) e alcuni castelli (Pierrefonds, Carcassonne), dimostra che è possibile restaurare un monumento integrando le parti mancanti in modo che il risultato finale potrebbe non essere mai esistito realmente se non nell’immaginazione dell’autore originario.
Questo tipo di restauro viene chiamato restauro “integrativo” e anche “stilistico” in quanto il restauratore non si limita alla manutenzione o al consolidamento dell’esistente, ma reintegra le parti mancanti secondo come erano (o avrebbero potuto essere) al tempo in cui il monumento era stato costruito.
Inoltre tutte le aggiunte fatte successivamente debbono essere distrutte, anche se queste sono ormai “storicizzate” e di valore artistico superiore. Le indicazioni di Viollet-Le-Duc sono quelle che, prima di iniziare il restauro, di studiare il monumento, eventualmente facendo riferimento alle forme degli edifici coevi.
Scuola antitetica a quella francese è quella inglese capeggiata dal critico d’arte John Ruskin, docente all’università di Oxford, che partecipò al movimento “luddista”, nato come forma di protesta nei confronti della società industriale.
Ruskin condanna qualsiasi forma di restauro, anche quello conservativo o di manutenzione, la sua posizione estremistica lo porta ad asserire che i monumenti debbono cadere in rovina fino a scomparire perché qualsiasi forma di restauro porta ad utilizzare parti nuove al posto delle parti rovinate facendo sì che l’edificio diventi nel tempo solo un modello dell’edificio originario.
Un famoso esempio di restauro “conservativo” secondo la scuola di Ruskin è invece il restauro dell’Abbazia di S. Galgano (Siena).
La chiesa abbaziale fu iniziata nel 1224, semidistrutta nel XIV, nel XVI era già in rovina. Nel XIX secolo fu restaurata, limitandosi al consolidamento dell’esistente, per cui adesso si possono visitare i grandiosi ruderi che lasciano comunque intuire l’antica bellezza, anche se la costruzione (su tre navate, con arcate a sesto acuto) è senza tetto e il prato invade la zona pavimentale.
Dalle posizioni estreme di Ruskin nasce, comunque, una corrente moderata, che accetta il restauro conservativo come unico strumento per salvare il monumento e trasmetterlo quindi ai posteri.
Alla corrente che preferisce l’azione del consolidamento al restauro appartiene l’architetto Camillo Boito (1836-1914), che accusa i restauratori “stilistici” di falsificare i monumenti in quanto ingannano i contemporanei e, ancora peggio, i posteri, arrivando ad affermare: “I restauratori sono gente da mettere in berlina o da mandare addirittura al patibolo”
Nel caso in cui il restauro si renda necessario, Boito considera importante che le “aggiunte” siano riconoscibili, utilizzando eventualmente materiale diverso dall’originale in modo da non trarre in inganno l’osservatore facendogli credere antico le parti aggiunte dal restauro.
E veniamo a noi, ai nostri giorni e ai problemi di come ricostruire una città come L’Aquila, con un centro storico devastato nei suoi tesori d’arte che compongono, o meglio componevano, uno dei complessi urbanistici, architettonici e storico-artistici più interessanti del Centro-Italia.
L’idea più interessante fra conservatori e modernisti, mi pare quella di Monsignor Antonini, espressa nel volume della One-Group” L’Aquila Nuova negli Itinerari del Nunzio”, in cui la città e immaginata risorta in una prospettiva di bellezza e di armonia in cui la valorizzazione del suo straordinario patrimonio architettonico, artistico, storico e ambientale, si equilibrano con le tecniche moderne di costruzione ecosostenibile, nel rispetto complessivo delle tradizioni del luogo.
Una ricostruzione r migliorativa non solo come sicurezza e infrastrutture, ma anche dal punto di vista formale e della bellezza, che sappia interpretate il passare della storia, tendo sempre conto della comunità e dello “spiritus loci”
Una ricostruzione coraggiosa e che non si fermi al mero recupero del “dov’era com’era”, come accaduto ad esempio per la facciata della chiesa di S. Biagio, ma sappia sfruttare ogni occasione per abbellire e, coraggiosamente, portare a compimento ogni opera recuperata.
A giugno scorso, dopo il terribile sisma dell’Emilia, ho letto parole che avevo già letto, anni fa, dopo il nostro terremoto del 2009. Ciò che ho letto è che, per risollevarsi da un cataclisma, da un disastro naturale o non, occorre coraggio, un coraggio che trovi nutrimento nel recupero dei valori condivisi dalle comunità.
Riaffiora nella memoria il motto che nel 1976-77 fu dei vescovi friulani per quel terremoto che non finiva mai e che fece, quasi mille morti, per quella ricostruzione lunga ma esemplare, specie a Venzone, pietra su pietra: “Prima le fabbriche, poi le case e infine le chiese Ma prioma ancora la comunità ed il suo modo di vedere le cose”.
Non far sfibrare il tessuto produttivo è fondamentale perché il lavoro è una delle formidabili risorse in questa crisi planetaria e nessuno può permettersi di indebolirlo. ridando vita e operatività, appena possibile, a filiere produttive di vario tipo.
Ma altrettanto importante è recuperare quei moniti di pietra che, lascito dei nostri avi, ci ricordino chi siamo e come interpretiamo la vita, inserendo il coraggio della bellezza in questa ricostruzione.
Come per l’Emilia, anche per noi e da noi, prendere la città ed il territorio, rianimarli, risollevarli, rimetterli in piedi senza facili assistenzialismi, senza “cricche”, ma con dignità, professionalità e trasparente onestà è monito centrale, entro cui inscrivere poi la capacità di ricostruire in senso storico e con afflato di autentica bellezza.

Solo riuscendo a comprendere ciò che veramente si è, rende possibile conquistare la serenità data agli essere liberi. Liberi e sereni, solo quando, chi sono, lo vedo scritto nei monumenti e nei manufatti che ha ricostruito, recuperato o restaurato.
Davvero, per la bellezza ci vuole coraggio, come coraggio ora ci occorre per alzare la testa dalla quotidianità ad una dimensione, per smettere di indossare gli occhiali del pessimismo ed iniziare a ritornare ad apprezzare il piccoli piaceri della vita di tutti i giorni, per compiere il reincantamento indispensabile ad imparare di nuovo a guardare oltre, a scoprire il bello nel normale, a vedere il mezzo pieno e non solo il mezzo vuoto, la felicità invece delle sofferenze, delle sciagure, dei dolori, delle disgrazie.
Un coraggio, ci vuole, che diventi una sfida nei confronti delle difficoltà, delle congiunture sfavorevoli, del fato avverso, delle malattie e dei disastri: espressione di una forza immane presente in ciascuno di noi che ci dà l’energia per combattere, per continuare, per continuare a sperare ed a cercare la felicità o i suoi brandelli da ricucire in un prezioso tessuto esistenziale, che si faccia poi, casa, luogo e città.
Voglio concludere con una frase di Tiziano Terzani, contenuta in “Un indovino mi disse”, monito per noi aquilani e per le nostre future ricostruzioni: Che cosa volevano dire gli antichi riferendosi allo spiritus loci se non che qualcosa resta ad aleggiare in un posto dove è avvenuto qualcosa di eccezionale?”
Nel tempo del new age e delle religioni fai da te, della disillusione di massa e delle guerre di religione, del politicamente corretto e dei benpensanti, Tiziano Terzani è stato una delle non molte voci intelligenti e fuori dal coro, illuminate e spiritualmente elevate ad un tempo, capaci di trasmettere in modo anche semplice pensieri complessi e profondi, senza per questo fondare su di lui una nuova religione, ma con una serie di convincimenti che partono da un assioma: siamo ciò che rappresentiamo, dentro noi stessi ed in ciò che costruiamo.

In questa ottica, ci sarebbe piaciuto che, nel restauro ultimato in solo sette mesi, del complesso di San Biago, sede della Parrocchia Personale “San Giuseppe Artigiano” meglio conosciuta come Parrocchia Universitaria, nel centro storico dell’Aquila, primo segno tangibile dell’impegno assunto dalla Chiesa Aquilana nel pensare la ri-nascita delle aree intra moenia alla luce del potenziale spirituale, culturale e sociale insito nei momenti urbani delle grandi architetture chiesastiche, si fosse recuperata la facciata come era, nel 400 e non si fosse fermata alla “falsa” intonacatura settecentesca, mostrando di avere, appunto e fino in fondo, il coraggio autentico della bellezza.


20 Luglio 2012

Categoria : Cultura
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