Un nuovo sogno per un’Aquila nuova
(di Carlo Di Stanislao) – Tutti gli esseri umani, di notte parlando ‘la stessa lingua’ e raggiungono ‘lo stesso luogo’: il Sogno. Il Sogno, che è certo un caos continuo di immagini, frammenti ed impressioni personali, può essere condiviso e divenire salvifico e collettivo.
Spogliare il Sogno della soggettività è quasi contraddittorio, per tutte le correnti psicologiche e tuttavia pare possibile individuare certi archetipi ed esperienze ricorrenti, che, decontestualizzando figure umane ed oggetti, alimentano la speranza e, sovente, aiutano ad aprirsi a prospettive salvifiche, soprattutto nei momenti di disperazione.
E disperato appare, dopo il sisma, lo stato emotivo ed esistenziale, dei residenti della cosiddetta “area del cratere”, che nelle macerie ancora immodificate della loro città, vedono la metafora di una distruzione che prosegue e non muta.
Da conforto a questi cuori coperti di tenebra, con un libro intelligente e pieno di speranza, Orlando Antonini, Nunzio apostolico a Belgrado e, per passione, insigne studioso di architettura religiosa e urbana,che in più d’una occasione, nel dibattito apertosi sulla città futura, “nuova” o “dov’era e come era”, aveva già esplorato più di una interessante proposta per una rinascita de l’Aquila e dintorni.
In un libro magnifico, uscito in questi giorni e che sarà presentato nella sala Sericchi della Carispaq, lunedì 16 luglio alle 18, la proposta si fa viaggio immaginario, a venti anni dal sisma, in una città splendidamente ricostruita, con dettagli urbani ed umani che danno vigore alle nostre istanze di futuro.
Splendidamente composto dall’editore One-Group, dal titolo esplicitamente chiarificatore: “L’Aquila Nuova. Gli itinerari del Nunzio”, nel libro si immagina un itinerario proiettato nel 2029, in una città ricostruita e ridente, in cui si proietta la parte migliore di noi, della nostra cultura ed operosità, con opere grandiose e splendidamente eloquenti, in equilibrio perfetto fra necessità umane e paesaggio.
Con una bella copertina in bianco e rosso, che furono i colori civici de l’Aquila fino al terremoto del 2 febbraio 1703 e con prefazioni di Leonardo Benevolo, Paolo Marconi, Pierluigi Cervellati e Sandro Ranellucci, il libro è anche una occasione per riflettere sul nostro passato e trarne spunto identitario e culturale, tale da farci immaginare non un qualsiasi futuro, ma un futuro che sia consono al retaggio cui apparteniamo e che sembra smarrito in questi anni di tristezza, lutto e confusione.
Anche se tutti sappiamo, dolorosamente, che non basta credere in qualcosa per riuscire a costruirla, comunque il valore di un sogno è davvero infinito.
Come scrive Remo Battaglia: “Quando una cosa la si desidera ardentemente, prima o poi, se crediamo in noi, si avvera. Esistono delle forze sconosciute che attraggono i nostri sogni con i fili sottili del desiderio”.
E, in questo suo libro, Monsignor Antonini ricompone, in immagini piene di respiro, i fili del desiderio di una comunità che ora sembra annichilita.
“La speranza è il sogno di chi è sveglio”, ha detto Aristotele più di 17 secoli fa e ridestarci, farci stare svegli è lo scopo che Orlando Antonini persegue in ogni pagina e parola e immagine di questo splendido libro.
Perché, in fondo, ha ragione lui: la speranza è un sogno con la possibilità di essere realtà e nella “oneiros” c’è sempre la possibilità di tradurre il sogno in concretezze del quotidiano.
Secondo la leggenda, l’Olimpo era in subbuglio: le dee del Fato avevano interrotto il proprio lavoro e sulla Terra il tempo si era fermato.
Cloto, che tesseva lo stame della vita, e Atropo (la più anziana delle tre), che aveva il compito di reciderlo nel momento prefissato, guardavano preoccupate la sorella Lachesi che, anziché attendere alle proprie occupazioni, ovvero distribuire a ciascuno la giusta Sorte, si torceva le mani con lo sguardo perso nel vuoto.
l problema era davvero di quelli grossi; infatti Atropo, al momento di recidere il filo della vita di un omino che abitava tutto solo nei boschi, si era resa conto che in realtà il poveretto non aveva mai realmente vissuto.
Semplicemente, al momento della sua nascita, distratta da quello sfacciato di Eros che le svolazzava intorno con le sue alucce dorate, Lachesi aveva dimenticato di assegnargli il suo Destino.
Ed ora, per riparare, non era rimasto che lo spazio di una notte.
Gli dei erano tutti li che si guardavano l’un l’altro senza sapere come risolvere il problema (tranne Eros che aveva preferito tenersi a prudente distanza), quando si fece avanti Thànatos (la Morte) che, con il faccino innocente di fanciullo e i suoi riccioli d’oro, propose con la freddezza che gli era consueta di occuparsene subito e personalmente. Lachesi, al sentirlo, emise un gemito di disapprovazione e Thànatos si allontanò offeso ed imbronciato.
Spes (la Speranza) mormorava parole di conforto, mentre Zeus accigliato, misurava il salone a grandi passi, non lasciando presagire nulla di buono.
A quel punto Hypnos, il dio del Sonno, che si era tenuto in disparte guardando corrucciato e pensieroso la scena, decise di intervenire con una proposta che, date le circostanze, sembrò a tutti la soluzione migliore. Poiché le regole dell’Universo non consentivano ad un essere mortale di vivere più di una vita nell’arco di una sola esistenza, l’omino del bosco, immerso in un sonno intessuto con trama sottile , avrebbe vissuto nello spazio di una notte quella vita a cui aveva diritto e che gli era stata negata.
.e fu così che nacquero gli Oneiros, i Sogni, tessuti con l’argento delle stelle, con perle di lacrime e di rimpianto e cristalli di desiderio.
Essi, bellissimi ed evanescenti, presero dimora nel Palazzo del Silenzio, sul fiume dell’Oblio e da allora, ogni notte, fanno visita agli uomini consentendo loro di viaggiare in una dimensione irreale senza limiti di spazio e di tempo, dove è possibile realizzare desideri inconfessabili e vivere non una, ma mille vite diverse.
E questi bellissimi sogni, che sovente visitano le notti di Monsignor Antonini, tutti interi esso ci regala nel suo libro.
Nato a Villa Sant’Angelo (L’Aquila) nel 1944, con alle spalle una lunga carriera diplomatica a servizio della Santa Sede in giro per il mondo, autore di vari libri, saggi e articoli sull’architettura religiosa abruzzese, Monsignor Orlando Antonini era in Paraguay durante il terribile sisma del 6 aprile del 2009, ma quattro giorni dopo era già sul posto, in tempo per sperimentare le scosse successive e la devastazione prodotta.
Nella tragedia, in quella tragedia non ancora superata e neanche appena razionalizzata, egli ha perso otto parenti e tanti cari amici ed affetti ed i più cari ricordi.
Ed è per questo, forse, che in questo suo, ultimo libro, riesce a pensare più al futuro che a quello che è accaduto e a dichiarare che, ben radicati nella fede da una parte e, dall’altra, nella speranza, dobbiamo aver fiducia e trasformare questa tragedia in una opportunità, una opportunità offerta paradossalmente dal sisma, che non dobbiamo assolutamente mancare.
Se vogliamo, possiamo ricostruire il nostro patrimonio edilizio però correggendone le storture, non congelandolo nel suo stato di fatto anteriore coi suoi squilibri ma recuperandolo “dov’era e meglio di com’era”, sia dal punto di vista materiale e strutturale che nei suoi aspetti formali.
E possiamo al contempo impostare una riprogrammazione economica ed occupazionale del nostro Abruzzo aquilano.
Obiettivo ambizioso, questo, che senza un evento eccezionale come il terremoto forse non riusciremmo mai a prefiggerci ma all’ottenimento del quale vorrei incoraggiare vivamente, intravvedendovi una possibile benché parziale soluzione a molti nostri problemi.
D’altra parte, come dico a me stesso molto spesso, catastrofe, in greco, non significa proprio “cambiamento di stato” e pertanto nuova opportunità?
Negli anni ottanta del secolo scorso, nasce una nuova teoria, detta “delle catastrofi”, che ci dice, partendo dalla teoria matematica dei punti critici e dalla teoria della descrizione delle forme del mutamento ed estendendo il suo campo anche all’economia, all’etologia, alla politica, che catastrofe è un brusco cambiamento di stato biologico o fisico descrivibile linearmente.
La più acuta teoria è elaborata da Thom che, afferma, che discontinuità non è considerata un’anomalia, ma resa comprensibile attraverso una “modellizzazione” che impiega la crisi, permette ogni trasformazione.
Vorrei chiudere citando il filosofo Umberto Curi e la sua analisi del mito ovidiano di Narciso come metafora della nascita della filosofia, ovvero della riflessione su di sé.
In questa ardita teoria, viene analizzata, in primo luogo, la figura dell’indovino Tiresia il quale afferma che Narciso potrà vivere a lungo solo se non conoscerà se stesso, introducendo così un tema peculiare della nascita della filosofia.
Accanto alla figura di Narciso, Ovidio introduce quella di Eco.
Eco e Narciso sono due figure corrispondenti e speculari, sono entrambi il simbolo dell’immagine, di ciò che è riflesso: Eco è il simbolo di ciò che si riflette acusticamente, Narciso di ciò che si riflette visivamente. Nell’amore di Eco per Narciso e in quello di Narciso per la propria immagine Curi individua importanti temi filosofici: quello dell’illusione e della realtà – che viene ripreso ed illustrato da Plotino – e quello dell’identità e dell’alterità, del sé e dell’altro.
Proprio questi temi, l’immagine ed il reale, la relazione fra il sé e l’altro, sarebbero alla base della riflessione filosofica sul rapporto fra amore e conoscenza.
E proprio di questo ci parla, ma con parole semplici e piane, Mons. Antonini, dicendoci, in fondo, di essere Eco e Narciso e di esserlo verso noi e gli altri, ricostruendoci come comunità, per poi
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