Terremoti, uomini, natura e altri disastri
(di Carlo Di Stanislao) –
Non è in relazione con le scosse di maggio in Emilia, il terremoto di magnitudo 4,5 che alle 4.04 di questa mattina ha investito Friuli Venezia Giulia e Veneto, con epicentro nelle località di Chies D’Alpago, Pieve d’Alpago, Tambre (Belluno) e Cimolais, Claut, Erto e Casso (Pordenone).
Nessun danno ma tanta paura per la popolazione residente , con numerosissime chiamate ai centralini dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile.
La dinamica generale riguarda il movimento della placca Adriatica, che costituisce la punta più settentrionale della placca Africana, allungata come una sorta di lingua che comprende la costa orientale dell’Italia e l’Adriatico.
In questo movimento generale la placca Africana spinge verso Nord contro la placca Eurasiatica e, di conseguenza, la placca Adriatica scende sotto le Alpi.
Quindi anche questo terremoto, come quello emiliano, è di tipo compressivo, insorto in un area tranquilla da non molto tempo, dal momento che l’ultimo terremoto era avvenuto nel bellunese nell’’ottobre 1936: un sisma di magnitudo 5,9, fra Treviso, Belluno e Pordenone.
Contemporaneamente l’Ignv, ha segnalato, alle 7,47, una nuova scossa di magnitudo 3,7 nel distretto sismico della Pianura Padana, con epicentro nella zona di Finale Emilia (Modena) e ad una profondità di 8,5 chilometri e un altro di magnitudo 2.3, localizzato in mare, al largo delle coste siracusane, nel distretto sismico del Golfo di Noto-Capo Passero, evento verificatosi un minuto dopo le 5, a una profondità di oltre 26 chilometri.
Come ha recentemente spiegato il geologo Stefano Conti della Università di Reggio e Modena, “la catena appenninica deriva dalla collisione di due grandi placche: quella europea e quella africana. Lo scontro avviene in maniera complicata lungo un fronte che descrive all’incirca un’ampia esse. In mezzo a queste due grandi placche si trova un’altra placca, dalle dimensioni più piccole, l’Adria, che viene stretta e compressa dal loro movimento”.
Lo stesso ha aggiunto che: “la collisione e l’interazione di queste placche ha portato al piegamento e al sollevamento delle rocce situate tra di esse e sui loro bordi generando l’attuale catena appenninica. La catena geologica non coincide però con quella topografica; una buona parte dell’Appennino e precisamente la sua parte più frontale esiste, sepolto, al di sotto dei sedimenti della Pianura Padana e del Mare Adriatico”.
Dopo l’evento di oggi e soprattutto dopo quello a largo di Ravenna il 6 giugno scorso, la paura terremoto si è ingigantita con il rischio tsunami, eventi cui il nostro Paese non è esente, con tanto di notizie storiche che risalgono al 79 d.C., in occasione della violentissima eruzione del Vesuvio.
Da allora si sono contato circa 70 tsunami, la maggior parte di debole intensità, ma non sono mancati episodi molto violenti.
Le aree a ridosso del mare che risultano più fragili a tal riguardo sono quelle in prossimità dello Stretto di Messina, della Sicilia orientale, della Calabria, del Gargano, della Liguria e, per avvicinarsi all’area del sisma del 6 giugno 2012, in misura minore, quelle della Romagna e delle Marche.
Gli tsunami peggiori si sono verificati in prossimità delle coste calabresi e siciliane, con il più distruttivo che si ebbe in nel 1908 in prossimità di Messina.
Più lontano nel tempo, nel 1693, conseguente di un sisma molto violento, si ebbe un maremoto lungo le coste della Sicilia orientale, da Messina a Siracusa.
Le conseguenze furono particolarmente catastrofiche nella città di Catania.
Secondo ricostruzioni storiche l’acqua si alzò anche di 15 metri e ad Augusta ci furono centinaia di vittime.
Ma il vero allarme attuale riguarda i gasdotti in aree sismiche.
Sono in molti, in Calabria, a chiedersi, non da ora, quanto davvero sicuri siano i gasdotti della Snam, soprattutto dopo che, in Tarsia, lo scorso anno, un metanodotto è esploso a causa di una smottamento.
Nel novembre 2008, nel centenario del sisma del 1908, in un convegno organizzato dalla Provincia di Messina, gli esperti dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, lanciarono l’allarme circa il crescente rischio sismico ed idrogeologico dell’area dello stretto, dove è sempre più concreta la possibilità che una nuova calamità naturale possa essere ancora più disastrosa di quella di cento anni fa, visto che una parte della costa orientale siciliana così come quella della Calabria meridionale, rappresentano zone particolarmente vulnerabili a frane e maremoti, oltre che allo scuotimento sismico.
Al solito, sotto accusa, lo sviluppo degli ultimi decenni, che non ha tenuto adeguato conto dei fattori di fragilità naturale, con molte case costruite lungo spiagge dove l’onda di maremoto raggiunse gli 8-10 metri di altezza nel 1908 e diversi pendii, potenzialmente instabili, occupati da costruzioni ed attraversati da infrastrutture, sia sul lato calabro che su quello siciliano.
Lo studio presentato dall’Ispra in quella occasione, ci informava che, nell’area, si sono registrate, negli ultimi anni, ben 86 frane, sia in roccia che in depositi argillosi, sabbiosi e ghiaiosi, 11 frane sottomarine e 70 fratture del terreno.
Inoltre si sono registrate variazioni di quota su 120 capisaldi, con abbassamenti del terreno fino a 70 cm, 12 casi di variazioni di portata delle sorgenti fino alla comparsa / scomparsa delle stesse, mentre 19 settori costieri hanno registrato un significativo arretramento della linea di riva.
Pertanto è l’uomo la causa prima dei danni che la natura può infliggere.
Dopo il terremoto in Emilia si è parlato spesso dello stoccaggio del gas naturale nella regione interessata dai tragici eventi recenti e la procura di Modena ha avviato un’indagine conoscitiva su eventuali perforazioni nel terreno di Rivara di San Felice, lo stesso al centro di lunghe polemiche per il progetto (ora fermato) di realizzare un impianto di stoccaggio della Ers: Erg Rivara Storage, progetto sposato dai governi Prodi e Berlusconi ma contestatissimo trasversalmente in sede locale – che prevede 3,2 miliardi di metri cubi di gas in acquifero profondo, unico in Italia e tra pochi al mondo.
Si tratta del secondo progetto, dopo una prima bocciatura, ma e’ per ora accantonato da Ers, che ha preferito chiedere prima l’autorizzazione per uno studio di fattibilità.
A questo studio – con la trivellazione di tre pozzi esplorativi – il Ministero dell’Ambiente aveva espresso in febbraio il proprio parere ‘positivo con prescrizioni’, senza però dare il via libera: l’autorizzazione la deve dare il Ministero dello sviluppo economico, d’intesa con la Regione Emilia-Romagna, che però si e’ detta più volte contraria (allo stoccaggio e al suo studio).
Solo il 30 maggio, dopo la seconda devastante scossa emiliana, il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, ha ricordato di aver disposto ”immediatamente dopo la prima scossa” del 20 maggio ”la riapertura dell’istruttoria, per verificare se esistano ancora le condizioni per uno studio di fattibilità”’.
Ma in questi giorni di terremoto, ragionando sul sottosuolo, più di un esperto ha parlato del ‘fracking’, la ‘fratturazione idraulica’ della roccia iniziata da una trivellazione.
Anche se poi, altri esperti parlano di bufala.
Lo scorso 26 maggio i Comitati cittadini per l’ambiente di Sulmona, hanno inviato una lettera urgente al Ministro dell’Ambiente affinché intervenga immediatamente sul problema del megagasdotto e della centrale Snam sospendendo il decreto emanato dal Ministero nel marzo 2011, dove si scrive, fra l’altro, che “è’ una follia, costruire il megagasdotto della Snam, inizialmente previsto lungo la fascia costiera, nelle aree di massima sismicità, le stesse del cratere sismico di L’Aquila e provincia, colpite dal devastante terremoto del 6 aprile 2009, e le stesse del sisma che ha interessato l’Umbria e le Marche nel 1997. Questi territori vanno risollevati e messi in sicurezza, non gravati di ulteriori pesantissimi rischi. Anche la centrale di compressione, che la Snam vuole costruire a Sulmona, molto più potente di quella prevista a Rivara, é in zona sismica di primo grado”.
Le motivazioni di opposizione all’opera, sostenute da cittadini ed Enti Locali, sono state ampiamente recepite dalla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati che, il 26 ottobre dello scorso anno, ha approvato alla unanimità una risoluzione che – proprio in ragione degli enormi pericoli derivanti dal rischio sismico, oltre che per la elevata qualità ambientale dei territori coinvolti – impegna il Governo a disporre la modifica del tracciato e ad individuare, attraverso un tavolo nazionale, una soluzione alternativa comunque al di fuori della dorsale appenninica. Ma, nonostante la decisione assunta dal massimo organo elettivo del nostro Stato democratico, l’iter autorizzativo dell’opera non solo va avanti ma sta facendo registrare una notevole accelerazione, addirittura attraverso l’arbitraria separazione in due distinte procedure, una per la centrale e l’altra per il metanodotto; separazione avallata da funzionari del Ministero.
La riflessione che da uomini dovremmo fare (e l’avremmo dovuta fare da molto tempo) è che proprio perché la Natura è così imprevedibile, che è il caso di ripensare la posizione dell’uomo all’interno di essa.
L’uomo non può e non deve inserire nel sistema altre variabili che rendono la naturale imprevedibilità delle cose ancora più devastanti.
Penso all’incidente nucleare di Fukuschima, alla dirompente fuoriuscita di petrolio della BP in Luoisiana, agli tsunami o alla casa dello studente del terremoto dell’Aquila, la mia città.
L’uomo ha pensato, specie dal ’900, di essere superiore alla Natura, di poter decidere ciò che vuole, infischiandosene delle piante, infischiandosene dei fiori, degli insetti, delle api, degli animali, delle generazioni future.
Occorre ora un catastrofico cambiamento (catastrofe in greco significa “cambiamento radicale di stato”) o sarà la Natura, catastrofe dopo catastrofe, a cancellare ciò che non cambia.
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