L’incomunicabilità in catalogo
(di Carlo Di Stanislao) – Una buona relazione di coppia dovrebbe essere basata sul riconoscimento reciproco e non può essere un campo di battaglia per eliminare le inevitabili differenze, un gioco al massacro per avere l’ultima parola oppure una situazione di calma apparente nella quale ognuno resta chiuso nella propria solitudine ed amarezza.
Il teatro di Ibsen, Strinberg e Cechov si occupano di questo, ma anche quello di Testori, Pirandello e Edoardo De Filippo.
E, molto recentemente, il teatro si è nuovamente occupato di questo, con “Ti ricordi di me”, piece di Massimiliano Bruno, in scena a Roma a metà marzo scorso ed ora in tournée in tutta Italia, con la “coppia” magnifica e “scoppiata” composta da Ambra Angiolini e Edeordo Leo, appena ammirato in tv in Titanic blood and steel e che si prepara al suo secondo film come regista: Buongiorno papà.
Ma di incomunicabilità nella coppia parlano molte altre rappresentazioni di oggi.
Isabella Ferrari, dopo la “riscoperta” morettina di “Caos calmo” e dopo “l’incidente” dell’ombelico mancante nella pubblicità-tv diretta, con “svista”, da Paolo Sorrentino, torna in teatro, accanto a Ennio Fantastichini, nella commedia “Il catalogo”, in scena, dal mese scorso, al Teatro Quirino di Roma.
Una piece su due persone diverse, che non riescono, ognuno chiusa nella propria solitudine, ad incontrarsi e comunicare.
Il protagonista, Jean-Jacques, avvocato in carriera, è un uomo con una buona posizione sociale che conduce una vita ordinata, scandita dagli stessi,ripetitivi e tranquillizzanti ritmi.
E’ uno scapolo gaudente, che passa da una donna all’altra con grande leggerezza, colleziona incontri e ne tiene un catalogo. Sembra molto soddisfatto di sé e tutto funziona finchè un giorno tutto ciò viene mandato all’aria dall’arrivo di Suzanne, una ragazza svagata che prepotentemente sconvolge non solo la casa ma anche la vita interiore ed emotiva del protagonista.
Diventa quindi un incontro tra un maschile e un femminile, tra due solitudini che non riescono a trasformarsi per approdare all’accoglienza e all’amore poiché passa attraverso il possesso e quindi diventa una gabbia da cui fuggire.
Scritta da Jean Claude Carriere, la commedia, dall’apparenza leggera, è in realtà un’ opera stratificata e complessa, calibrata ad attraversare, i nodi di un’acuta riflessione sul senso ultimo del “sopravvivere a se stessi”, o sugli “anticorpi” che ciascuno rimette in circolo nel rituale della quotidianità, per dare e darsi un significato; più precisamente, sul rapporto tra istante vitale e “catalogo” di tracce seminate nel proprio percorso.
Fantastichini e la Ferrari colonizzano, con i propri tic irreversibili ed enigmi personali irrisolti, gli spazi fisici e interiori di una “tana” adibita allo scopo: una casa minuscola, claustrofobica, a misura delle inveterate abitudini da scapolo di lui.
A far scattare l’intuizione allegorica fondamentale, sulla scena, l’espediente narrativo dell’amnesia cronica del protagonista, che lo obbligherebbe a redigere un “catalogo” del proprio vissuto per non disperderlo nel vuoto di una perdita continua di sé stesso; ma la sua vita, ridotta a inventario di “tacche” in una stecca interminabile di conquiste femminili, parrebbe evocare l’intuizione di un’amnesia collettiva cronica, tutta contemporanea, nella necessità di colmare le improvvise voragini che si aprono sempre più spesso dietro i paraventi della normalità; rito di rimozione collettiva di storia e radici, insomma, che rischia di innescare, dietro il “tic” di introiezione seduttiva dell’altro, il trauma del contatto con le retrovie fragilissime del proprio essere, in una nevrosi senza altri rimedi che il blindamento definitivo di ogni spazio vitale precedente, fino a plessurizzarlo in una “non vita”.
Mentre la Ferrari affida Ferrari, affida a una specie di irresistibile accento “apolide”, vagamente cantilenante, lo scardinamento pezzo per pezzo delle certezze del padrone di casa, espropriandolo di ogni possibile difesa; Fantastichini, forte del suo smisurato bagaglio tecnico, dimostra una volta di più la sua grande duttilità, combinando i tratti più istintivi della sua maschera mediatica più congeniale, quella del “duro”, con un’ampia tavolozza di registri espressivi (come nel film “Mine vaganti” di Ospetek, rivisto in Rai ieri sera).
La regia di Valerio Binasco è particolarmente attenta alle complesse dinamiche dello sviluppo e mostra di aver ben appreso la sottile alchimia della rappresentazione teatrale.
Nato nel 1965, diplomatosi nell’88 presso la Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova, dove, lo stesso anno ha portato in scena diverse opere di Goldoni, vincitore del premio Ubu per la sua interpretazione nell’Amleto diretto da Carlo Cecchi, di cui poi diventa assistente alla regia; Binasco ha diretto, in teatro, La bella regina di Leenane di Martin Mcdonagh e Il gabbiano di Anton Čechov; mentre al cinema ha lavorato in Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, Texas di Fausto Paravidino, Non prendere impegni stasera di Gianluca Maria Tavarelli, La bestia nel cuore di Cristina Comencini, Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek e Noi credevamo di Mario Martone.
Quando a Jean Claude Carriere, classe 1931, ha scritto molto anche per il cinema, collaborando alla stesura di film come “il fascino discreto della borghesia” (1972, di Bunuel), “L’insostenibile leggera dell’essere”(1988, da Kundera); “Cyrano de Bergerac” (1990) e “Chinese box” (1997), “L’ultimo inquisitore” (2006, di Milos Forman).
Le sceneggiature di Carrière sono tra le più geniali e originali della storia del cinema. Il suo surrealismo, mai fine a sé stesso, è la chiave per superare il sistema di convenzioni che governa il mondo borghese e osservarne le incongruenze.
Nel 2009, con Umberto Eco, ha scritto N’espérez pas vous débarrasser des livres, un saggio molto originale sulla scrittura e la funzione della cultura nel mondo attuale.
Personalmente l’ho apprezzato per i plot scritti per Bunuel ( Il diario di una cameriera, Bella di giorno, La via lattea, Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà e Quell’oscuro oggetto del desiderio), ma anche per Birth – Io sono Sean, film del 2004 del regista Jonathan Glazer, interpretato, fra gli altri, da Nicole Kidman e Lauren Bacal, ritratto di una donna condotta alla pazzia dall’amore.
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