L’inferno sono gli altri (e gli altri siamo noi)


ff705c129649c3821L’Aquila – (di Sandro Cordeschi) – Intorno al 1315, un certo Dante Alighieri arrivava ad elaborare una sua ennesima idea di città, fondata sulle sue precedenti riflessioni teoriche e sulla sua esperienza personale. Echi di tale utopia, mai più compiutamente espressa, si trovano nei tre canti centrali del Paradiso, quelli dedicati a Cacciaguida, avo del poeta. Uno dei pilastri della visione dantesca di Firenze (la Città) è l’appartenenza, l’identità dei cittadini, potremmo dire la “fiorentinità”. Si tratta di un elemento elaborato sulla base di criteri etici e, in un certo senso, culturali, scevri da ogni riferimento a pregiudizi “razziali” o a privilegi indotti dalla semplice costanza della presenza all’interno delle mura.
Dante, per il tramite di Cacciaguida, ipotizza una struttura sociale in cui il ruolo di guida compete a coloro i quali meglio conoscano l’origine e il fine dello sviluppo della Città e che abbiano dimostrato di averne meglio interpretato la vocazione, operando per la realizzazione di un ambiente urbano moralmente sano, economicamente produttivo, equilibrato nelle sue diverse componenti. Si era in pieno Medio Evo, eppure, a prescindere dalle necessarie concessioni allo “spirito del tempo”, il poeta esiliato si dimostrava capace di delineare una visione “moderna” della società civile. Ciononostante, a molti il suo progetto appare oggi “esclusivo” più che “inclusivo”, “provinciale” più che “multiculturale”.
Che dire allora delle brillanti soluzioni verso le quali spingono alcune tra le menti elette della nostra povera città dell’Aquila? Provenienti, a quanto ci consta, nella maggior parte dei casi dal “contado” e non dalla “cerchia delle mura antiche”, questi Signori ritengono, nella completa assenza di un progetto urbanistico e civile riconoscibile ed accettabile, nella totale confusione di intenti che caratterizza questo momento drammatico della vita cittadina, ignari dell’illustre precedente dantesco, ritengono dunque di poter proporre un loro concetto di “aquilanità” fondato (udite, udite!) sulla geniale nozione di “residenza”.
“Residente”, è chiaro, non significa “abitante” e, tanto meno, “cittadino”, cioè membro attivo, libero e rispettoso della società civile; può darsi che le qualifiche in alcuni casi coincidano, ma spesso indicano invece condizioni differenti, se non opposte tra loro. Se qualcuno si illudeva che il terremoto, pur nella sua cieca e devastante furia, avesse offerto l’opportunità, ad uomini divenuti migliori proprio in virtù del comune dolore, di rifondare su basi più solide non solo gli edifici, ma anche la comunità sociale, si disilluda al più presto. Valori come l’equità, l’equilibrio, l’attenzione al benessere collettivo come presupposto per quello individuale restano parole nei libri dei filosofi, o frasi vane pronunciate da chi agisce nella direzione opposta.
Si continuerà a privilegiare non chi ha bisogno, o chi magari ha contribuito in maniera determinante alla valorizzazione e allo sviluppo della città, ma piuttosto chi può vantare una non meglio specificata “nobiltà di sangue”, proprio quella che Dante riteneva titolo vuoto, se non supportato da adeguata “nobiltà d’animo” e da azioni onorevoli. Così, anche i residenti che abbiano, nel passato più o meno recente, agito in modo tale da impedire all’Aquila di essere degna del suo nome e della propria origine (e molti ce ne sono, alcuni tanto noti che non merita menzionarli ancora), godranno di privilegi tolti invece ad altri cittadini consapevoli e onesti. E i legnosi formicai, già brutti a vedersi dall’esterno, ospiteranno, al loro interno, in attesa di più sontuosi alloggi e di più esclusivi privilegi, alcuni tra quelli che era invece augurabile si allontanassero dalla città, anche perché a molti di loro non mancano le possibilità economiche di “rifarsi una verginità”, posto che ci tengano, in altri luoghi, dove probabilmente già possiedono ennesime case, come insegnano alcune vicende recenti.
Nella nostra permanente ricerca di identità, questo abbiamo imparato da tale situazione: sappiamo ancora meglio che cosa NON significa per noi essere “aquilani”: non vogliamo essere “residenti”, ma “cittadini” vivi e partecipi di una città che, pur nel vuoto di idee e di pensieri, lentamente rinasce su se stessa, più “leggera”, tesa con consapevolezza verso la realizzazione di una società civile meno chiusa e al tempo stesso più conscia del proprio background storico e culturale e delle proprie potenzialità, come la nostra cara Aquila, negli ultimi decenni, non è mai stata.
scordeschi@yahoo.it


07 Agosto 2009

Categoria : Dai Lettori
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