Bankster e lo sterco di Satana
(di Carlo Di Stanislao) – Il rapporto appena pubblicato da Alma Laura e per lo meno deprimente: dieci anni dopo aver discusso la tesi ed aver appeso al muro il titolo di studio, il laureato medio italiano guadagna poco più di 1.600 euro al mese, e il reddito scende sotto quota 1.400 euro se la laurea è di area psicologica o in architettura, e sotto i 1.300 euro se la facoltà da cui è uscito è quella di lettere. E tutto questo se è stato fortunato a trovare un lavoro.
Commenta tristemente il Sole 24 ore che i numeri sono tutti in calo e riflettono le dinamiche vissute nella prima fila della crisi occupazionale, quella dei giovani in cerca di primo impiego o comunque nei passi iniziali della propria carriera.
Infatti, il tasso di occupazione a un anno dal titolo, fra gli studenti arrivati alla laurea nel 2010, è del 68,6% per chi ha un titolo triennale, con una flessione di 9 punti percentuali rispetto a quattro anni fa, e del 56,8% fra chi ha conseguito una laurea specialistica (in questo gruppo il dato è sempre più basso perché non considera tirocini, praticantati, dottorati o scuole di specializzazione, ma il confronto con il 2007 mostra comunque un -8%).
Insomma, secondo quanto raccolto da Alma Laurea, quasi mezzo milione di neo dottori che, in linea con il dato generale sul tasso di disoccupazione giovanile superiore al 31%, fatica a trovare un impiego, in una Italia con stipendi fra i più bassi d’Europa e che non crescono da un decennio.
Eppure, a differenza di altri paesi con un numero di laureati molto più consistente del nostro, in Italia, la percentuale è piuttosto modesta e al numero di iscritti non corrisponde quello di chi esce con un diploma di laurea in mano.
Tuttavia,va detto come nota Panorama on-line, bisogna anche riconoscere che le nostre università non sempre offrono una preparazione adeguata a un modello produttivo che richiede una preparazione evidentemente diversa e più aggiornata ai tempi attuali. Questo, secondo Alma Mater, varia da settore a settore e da università a università: talune vedono venire al pettine il nodo della loro inadeguatezza rispetto alle esigenze del mercato del lavoro e della società contemporanea, altre (Politecnico e Bocconi, ad esempio), vanno molto bene.
Naturalmente c’è chi vorrebbe una classifica delle Università in relazione alla occupazione dei suoi diplomati e chi vede in questo un pericolo capace solo di acuire le differenze di possibilità fra ceti più o meno abbienti.
E c’è chi se la prende con “fallimentare” sistema del “3 più 2”, difeso, invece, ad oltranza da altri.
Ma la domanda che io mi pongo, nel leggere i disastrosi dati ISTAT e quelli di Alma Mater, nel vedere come si impoveriscono i singoli e le famiglie e di come aumenti la quota dei giovani o disoccupati e sottopagati, è non tanto come se ne esce, ma come abbia fatto l’Italia di mio padre, quella degli anni ’50 e ’60, a diventare la settima potenza al Mondo, producendo così tanta ricchezza in così poco tempo e, per di più, senza materie prime.
Scrive Michele Fronterrè che una risposta può darcela un’analisi storica ed economica del nostro Paese, con il riconoscimento, appunto storico ed economico, del ruolo primario svolta dal passato tessuto imprenditoriale, fatto, allora, di uomini pervicaci, eccentrici, grandi organizzatori, a volte straripanti e un po’ spericolati, ma capaci di creare prodotto innovativo che fu in grado di convincere il resto del mondo, , facendo cose, belle e semplici, che piacevano a tanti.
Il tema della crescita dipende da quello che produciamo e da come siamo bravi a venderlo. La sensazione di chi manda avanti piccole e medie attività imprenditoriali, a forte matrice tecnologica e capital intensive, è che si lavorerebbe meglio in uno Stato più leggero e meno presente.
Ma anche con imprenditori più intelligenti e coraggiosi e non del tipo di quelli che usano strumenti probi, come la cassa integrazione, in modo improprio:una vera e propria leva di business per le grandi aziende manifatturiere (automotive) che sono incentivate, in un mercato mondiale la cui domanda vive una forte rarefazione, a non produrre, a non investire in nuovi modelli, aspettando tempi migliori potendo salvaguardare posti di lavoro e quindi competenze. Il tutto non curandosi della domanda aggregata e del rallentamento sui consumi che è, com’è noto, francamente deflattivo.
Tornando, poi, ad Alma Mater, va detto che nella Italia di oggi vi è anche un problema culturale molto grave.
Gli attuali giovani laureati finiscono col saper fare tutti, più o meno, le stesse cose, per conoscere tutti, più o meno, le stesse lingue.
Manca la cultura della diversità come quella della, che nell’adolescenza può essere tradotta con il termine avventura, ma in età più avanza come capacità di adattamento e di rinnovamento.
Senza riforma del lavoro gli sforzi del governo per rilanciare il paese rischiano di rimanere incompleti e il premier ha annunciato, più volte, l’intenzione di mettere mano alla politica del lavoro, anche a costo di dover intervenire sulle regole di licenziamento.
E di volerlo fare, al massimo, entro fine mese.
Così, secondo lui ed altri (in testa la Fornero), il non tabù dell’articolo 18 e la flessibilità lavorativa dei giovani sono le due soluzioni.
Senza tener conto della carenza endemica di mentalità imprenditoriali, con una burocrazia farraginosa e parassita e costi gravosi da sostenere senza l’aiuto delle banche.
Ora, ci auguriamo, dopo aver ricevuto aiuti per più di 500 miliardi dalla BCE (più di 130 a quelle italiane), le Banche dovrebbero destinare i fondi non per i propri debiti e dividenti, ma per sostenere famiglie e imprenditoria.
E, invece, dai primi di marzo, un sempre maggio numero di politici punta il dito contro di loro che, dopo essere stati i principali artefici del default finanziario globale, dai bond argentini ai mutui subprime statunitensi, dopo essere state salvate con il denaro pubblico, proseguono ineffabili ed intoccate nel loro vergognoso percorso speculativo.
Come scrivono Rita Pennarola e Andrea Cinquegrani nell’interessante libro “Bankster”, dopo la maxi-asta della Bce che aveva acceso le speranze di imprenditori e mondo del lavoro, che intravedevano in questa nuova liquidità un’ancora di salvezza nel mare della stretta creditizia; a tre mesi dall’asta di dicembre, con la Bce che ha assegnato alle banche europee 529,53 miliardi di euro al tasso dell’1% a 36 mesi, tutte le banche, a partire dalle nostrane, che hanno fatto domanda e ottenuto 140 miliardi di credito, si sono guardate bene da immetterli nel circuito delle piccole e medie imprese e delle famiglie o impiegarli per superare la crisi di liquidità ed ovviare al credit crunch. Ciò che invece hanno fatto è stato comprare bot e btp a un tasso di rendimento del 5,5%, con un ricavo, per loro, da dicembre ad oggi, stimato in 13,5 miliardi.
E a leggere tutto questo tornano in mente il venerdì nero nel quale esplose la bolla legata ai mutui subprime americani, le banche che rifilavano bond argentini, titoli Cirio o Parmalat a sprovveduti pensionati, quando le agenzie mondiali di rating già avevano ufficializzato il fallimento dello stato sudamericano e delle aziende di Cragnotti e Tanzi ed altre recenti amenità di questo tipo.
“Gli economisti politici”, secondo Stephen Zarlenga nel libro The Lost Science of Money, “sono diventati il sacerdozio della nuova aristocrazia Bancaria, spesso prestandosi come apparato propagandistico per coprire la struttura del potere monetario. Essi hanno portato avanti idee sbagliate e cortine fumogene sulla natura del denaro, concetti primitivi per facilitare il radicamento dei banchieri”.
Essi, secondo lo studioso, non sono solo i responsabili della distruzione dell’economia mondiale all’”establishment finanziario e ai loro economisti”, ma anche del capillare, diffuso ed ormai indistruttibile ‘Potere del Denaro’. La ragione per la quale il corrotto sistema bancario moderno è durato così a lungo nonostante le sue pessime prestazioni è perché gli economisti professionisti non hanno quasi mai puntato il dito contro i banchieri, né hanno mai messo in discussione la creazione disonesta del denaro privato basato sul debito o la truffa scandalosa del prestito a riserva frazionaria.
E, sempre per Zarlenga, come i muli rappresentano la sterile prole di asini e cavalli, gli economisti rappresentano la sterile progenie dei bankster e dei corporativisti.
Gli economisti sono anche stati oggetto di critiche provenienti nientemeno che dal pungente ingegno dello scrittore George Bernard Shaw che diceva: “Se tutti gli economisti fossero stesi uno accanto all’altro, non raggiungerebbero una conclusione”. E il consulente di investimenti Peter Lynch distorce questa citazione in maniera un po’ più brutale: “Se tutti gli economisti del mondo fossero stesi uno accanto all’altro, non sarebbe una brutta cosa”.
Brutale ma, forse, anche vera.
Sicché ha forse ragione Lanutti che, già due anni fa scriveva, che la cricca irresponsabile dell’oligarchia finanziaria guidata dai banchieri centrali, dopo aver offerto munizioni agli speculatori con i bassi tassi di interesse – gli stessi speculatori che hanno contribuito a chiudere tutti e due gli occhi sulla falsificazione dei conti della Grecia perché contigui a Goldman Sachs – e dopo aver colpevolmente ritardato gli interventi a tutela della stabilità dell’euro, utilizzando i secchi di acqua non per spegnere l’incendio, ma per farsi la doccia ed arrivare più puliti ai funerali dell’unione monetaria, hanno iniziato ad acquistare titoli di stato emessi dai membri dell’eurozona nella più totale opacità.
Goethe affermava che «nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo». Questo principio è particolarmente valido per il sistema monetario vigente. Il cittadino si illude di essere proprietario dei soldi che ha in tasca, mentre ne è debitore.
La banca, infatti, emette la moneta solo prestandola, sicché la moneta circola gravata di debito.
Come scriveva nel 1984 G. Simmel in “Filosofia del denaro”, occorre ricordare (e sarebbe bene ristudiarlo in Università, anche economiche, anche se il denaro non è mai stato così presente nella nostra esistenza come oggi che, fisicamente, è assente, perché non aumenta di nulla la ricchezza del mondo, perché può acquistare unicamente ciò che c’è già, può trasferire solo la titolarità della proprietà delle cose ma non portare a nessuna reale crescita.
Il denaro raggiunge la sua perfezione e la sua purezza quanto più si smaterializza, perché il denaro in quanto tale non esiste in natura: è un’astrazione. Infatti in qualsiasi forma si presenti (moneta-merce, oro, monete metalliche, cartamoneta, banconote, azioni, obbligazioni, registrazioni in conto corrente, impulsi elettronici, tacca con cui il barista segna che gli devo un caffè) il denaro è una promessa. Funziona da intermediario nello scambio non perché è un valore materiale ma in quanto è una promessa.
E se lui, il denaro, è una promessa, la moneta è una convenzione, con la quale si concorda che un determinato oggetto funziona come garanzia di tale promessa, come titolo di credito. Infatti il denaro, quale che sia la sua forma, è sempre un credito e la promessa (cioè il denaro), oltre a essere di per sé aleatoria, non regge all’infinito.
Per questo i banchieri ed i finanzieri, che sono gli individui che meglio hanno capito la funzione del denaro, lo fanno girare vorticosamente, cambiandogli di continuo impiego e trattenendo solo quel minimo di liquidità che è loro indispensabile, pronti a disfarsene del tutto. Il gran gioco del denaro è tutto qui: far ricadere, al momento opportuno, la sua inesistenza sui troppo creduloni.
Come ci ricorda Le Goff ne “lo sterco del diavolo” (Laterza, 2010), la principale rappresentazione simbolica del denaro nell’iconografia medievale è una borsa che, appesa al collo di un ricco, lo trascina all’Inferno.
E vi sono stati, nella storia, secoli in cui la Carità contava più del Mercato, sicchè
il denaro, nel senso in cui lo intendiamo oggi, è un prodotto della modernità.
Non è un protagonista di primo piano del Medioevo, né dal punto di vista economico e politico né da quello psicologico ed etico; è meno importante e meno presente di quanto non lo fosse nell’Impero romano, e soprattutto assai meno centrale di quanto non diventerà nei secoli successivi.
Dai pulpiti medievali risuona la condanna dell’avarizia come peccato capitale e le parole dei monaci e dei frati elogiano la carità ed esaltano la povertà come ideale incarnato da Cristo.
Non l’accumulo, non la ricchezza garantiscono il buon vivere. La salvezza è nel dono e nel sostegno ai deboli. La pecunia è maledetta e sospetta, perché il denaro e il potere economico non sono ancora arrivati a emanciparsi dal sistema globale di valori proprio della religione e della società.
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