Abolizione titoli? “Effetti perversi”
L’Aquila – Il rettore dell’Università Ferdinando di Orio (foto) ha inviato ai parlamentari eletti in Abruzzo una lettera: “Ciclicamente, nel nostro Paese, torna il tema dell’abolizione del valore legale del titolo di studio. Qualche anno fa, fu la Lega Nord a farsi paladina di una battaglia che avrebbe dovuto eliminare definitivamente la «falsa concorrenza agli atenei del Nord da parte delle università meridionali che si sono trasformate in laureifici».
Ora la questione sembra essere allo studio dell’attuale “governo dei tecnici”, che avrebbe intenzione di promuovere un’iniziativa specifica in tale direzione, già salutata da molti osservatori come «un’autentica rivoluzione liberale».
Come rettore di un’Università che deve innanzitutto preoccuparsi della formazione dei giovani e delle loro prospettive professionali, non posso esimermi dal mettere in guardia dagli effetti perversi che un tale provvedimento potrebbe determinare sia rispetto al mondo del lavoro sia rispetto al sistema universitario.
Il valore legale del titolo di studio, infatti, ha svolto sino ad oggi un’utile e insostituibile funzione di mediazione proprio tra sistema formativo e mercato del lavoro, assicurando da un lato l’accesso alle professioni regolamentate e ai concorsi per gli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e garantendo, dall’altro, la qualità della formazione universitaria secondo necessari criteri e requisiti specifici.
Non è ancora chiara la motivazione per la quale il Governo sta pensando all’abolizione del valore legale del titolo di studio. Se si tratta di un’iniziativa per favorire una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, è necessario ricordare che in realtà il valore legale del titolo di studio rappresenta un vincolo solo per il settore pubblico, perché il settore privato è già libero di attribuire a ogni titolo di studio il valore che ritiene opportuno.
Francamente non si comprende come l’abolizione del valore legale del titolo di studio possa favorire l’allineamento dell’Italia, dove spesso – secondo i suoi fautori – «conta soltanto la raccomandazione di papà o la segnalazione del politico di turno», agli altri paesi europei, dove invece conterebbe «l’insieme delle esperienze professionali e umane: il curriculum». A me sembra, invece, che l’abolizione del valore legale peggiorerebbe fortemente la situazione. In un sistema di generale precarizzazione del mondo lavoro, infatti, esso rappresenta la migliore ed unica garanzia in grado di assicurare reali condizioni di uguaglianza per tutti i cittadini nell’accesso al mondo delle professioni. Il che non esclude che, oltre il titolo di studio, possano essere effettuate le opportune valutazioni sul curriculum dei candidati al concorso e/o alla progressione di carriera. Insomma, ad una garanzia di partenza uguale per tutti – il valore legale del titolo di studio – nessuno oggi vieta di aggiungere ulteriori criteri di merito.
Peraltro, abolire il peso del voto di laurea nei concorsi per accedere alla pubblica amministrazione, nei quali spessi si presentano migliaia di candidati, significa affidare proprio al meccanismo dei concorsi e alle relative commissioni preposte la responsabilità di un giudizio sul merito delle capacità dei singoli candidati, che è sempre molto difficile da esprimere in una singola prova, a maggior ragione quando non ci si può avvalere del voto di laurea. Non è assolutamente detto, infatti, che un candidato al concorso laureato con 90 in un’Università più prestigiosa sia realmente più bravo di un laureato con 110 e lode in un’Università meno prestigiosa.
Se l’obiettivo perseguito dal governo è piuttosto quello di eliminare formalismi e rigidità che pesano sul sistema universitario, determinando così una concorrenza virtuosa tra Atenei, mi sembra ugualmente una fiducia malriposta. Lungi dal determinare una maggiore attenzione da parte degli Atenei alla qualità della didattica, l’unico risultato sarebbe la differenziazione delle Università in categorie di “serie A” e di “serie B”. L’abolizione di una garanzia “in uscita” dall’Università verso il mondo del lavoro, si tradurrebbe solo in una penalizzazione “in ingresso” nel mondo dell’Università, con un corto-circuito logico che, classificando gli Atenei in diverse categorie di eccellenza, finirebbe per discriminare gli studenti fin dall’accesso nelle Università, con una chiara violazione del dettato costituzionale.
Anche su questo versante, l’effetto auspicato difficilmente sarebbe realizzabile in un contesto nel quale, a causa della mancanza di risorse finanziarie e di personale, è difficile garantire la qualità della didattica e il sostegno agli studenti nei loro sforzi formativi. L’Italia è l’unico tra i principali paesi europei ad essere sensibilmente distante dal target di Lisbona, ribaditi da Europa 2020: nel 2010 solo il 19,8% dei 30-34enni ha conseguito un titolo di studio terziario, ben 20 punti percentuali sotto il target e a quasi 14 punti dalla media dell’Unione Europea (33,6%). E se il Centro-Nord è al 22,4%, il Mezzogiorno è addirittura fermo al 15,6% (SVIMEZ 2011).
Se si estende lo sguardo al sistema formativo nel suo complesso, i dati sono ancora più sconfortanti: la quota di early leavers from education and training (giovani di 18-24 anni che hanno abbandonato gli studi senza aver conseguito un titolo di scuola secondaria di primo grado), è pari nel 2010 al 18,8%, oltre quattro punti percentuali in più della media UE e nove punti al di sopra del valore fissato dalla strategia di Lisbona.
Spero che la necessaria discussione in Parlamento su queste tematiche faccia chiaramente emergere che il valore legale del titolo di studio è solo un falso problema e che la sua abolizione rappresenta una scorciatoia pericolosa che rischia di comportare più danni che non soluzioni ai problemi che riguardano sia il mondo del lavoro sia il sistema formativo. La vera soluzione è aumentare le opportunità per le giovani generazioni, non ledere i pochi baluardi rimasti a garantire loro la possibilità di un futuro migliore.
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