Natale disperato
(di Carlo Di Stanislao) – Strage di cristiani in Nigeria e di giovani sulle nostre strade in questo Natale povero e triste sopra ogni dire, con una spesa per i consumi che è stata la più bassa dal 2000, famiglie attanagliate dalla paura del domani ed una serie infinita di lutti e tragedie in tutto il mondo. Un Natale senza speranza, con l’Istat che certifica il nostro stato recessivo, la Liguria che dopo l’acqua prova la tragedia del fuoco, che ne distrugge 3.000 ettari di bosco, con ancora efferati omicidi (una giovane rumena a Francavilla) ed un clima da lutto e tregenda che serpeggia nell’animo di ciascuno di noi. L’incertezza, i timori sul futuro, i deboli orizzonti della fiducia, l’assenza di interlocutori credibili hanno funestato questo Natale di lutti interni ed internazionali, in un mondo in cui ancora si perde la vita per la propria religione, in un’Italia con la fiducia a ribasso, giovani senza speranze e famiglie prive di ogni orizzonte e certezza. La riapertura di oggi delle piazze europee è attesa con angoscia, alla vigilia di un consiglio dei ministri molto importante sul versante della crescita. Il 23 dicembre il dato di chiusura dei mercati finanziari è stato spietato: il differenziale con il Bund tedesco ha raggiunto di nuovo 503 punti base, il che porta il tasso del Btp al 7%: un salasso per i conti dello Stato, una botta per il debito ormai vicino a superare la soglia dei duemila miliardi, che non vuole cambiare rotta, neppure con la recente manovra da 25 miliardi, con un debito aggiuntivo sugli interessi passivi, per il nostro Paese, pari a 8 miliardi, cifra che vanifica gran parte dei già enormi sacrifici dei cittadini. Ed inutili si rivelano i sacrifici e le speranze per la nostra Regione, con un Capoluogo che ancora si dibatte per riprendere una rotta, dopo il terremoto, una occupazione che decresce continuamente e tutti gli indicatori economici in negativo. Una regione che non sa più neanche investire sui due suoi beni primari: cultura e turismo, due beni che non sono superflui e che anzi, se giustamente aiutati, possono portare ricchezza e non soltanto interiore. Ed invece si apprende che il taglio dei finanziamenti regionali alla cultura porteranno, secondo una nota dell’assessore De Fanis, ad una riduzione di mille posti di lavoro, con appello immediato di Antonio Centi, Presidente dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese e coordinatore di Federculture per l’Abruzzo, che rischia di restare voce clamante ed inascoltata. Come abruzzese, come aquilano, come uomo di cultura e che alla cultura deve molto, ma anche come Presidente di una istituzione (L’Istituto Cinematografico Lanterna Magica), lasciato senza sostegno regionale da tre anni e costretto al ricorso alla cassa integrazione per un gran numero di dipendenti, nonostante le molte encomiabili iniziative a carattere locale e nazionale, svolte dal 2009 ad oggi, non posso non sostenere e con forte convinzione, quando affermato da Centi, che ha giustamente chiesto, in sede di Commissione Bilancio del Comune de L’Aquila, in una consultazione formale: “di sottoscrivere una risoluzione per vincolare alcune somme preventivate a favore della Regione Abruzzo nei primi mesi dell’anno da parte del Governo Centrale da destinare alla cultura ed in particolare allo spettacolo”. In questo Natale di lacrime e sangue, di disperazione e di pianti, credo vada seguita la strategia della Commissione Europea, che con l’aggravarsi della crisi economica, ha previsto di lanciare il più grande programma di finanziamento culturale mai realizzato al mondo: 1,8 miliardi di euro stanziati per le arti visive e performative, il cinema, la musica, la letteratura, l’architettura. Il progetto, chiamato “Creative Europe”, prevede il rilascio dei finanziamenti tra il 2014 e il 2020 e se il piano sarà approvato per la fine del 2012, circa 300.000 artisti ne beneficeranno. Scopo del piano (on-line su: http://ec.europa.eu/culture/creative-europe/) è “consentire ai settori culturali e creativi di raggiungere il loro potenziale in modo che possano contribuire agli obiettivi di Europa 2020 di crescita sostenibile, occupazione e coesione sociale”. Scopo encomiabile a cui tutte le istituzioni, a partire dalle amministrazioni regionali, dovrebbero immediatamente aderire, mettendo a disposizione uomini e mezzi per essere pronti a non far affondare la cultura: un bene in cui il resto d’Europa scommette e che noi, invece, rischiamo di far affondare. Il binomio economia-cultura è stato recentemente riportato al centro dell’attenzione dall’uscita del volume di Giuseppina Volucello (Rubbettino) Cultural planning: la pianificazione delle risorse culturali per lo sviluppo urbano. E, in quanto abruzzesi ed aquilani, il libro ci riguarda molto da vicino, poiché sostiene (e documenta), la possibilità che possa essere la cultura a determinare le fortune di un territorio , soprattutto nel Mezzogiorno. Inoltre, e qui parlo anche da medico, questa idea può costituire un vero “asset” per lo sviluppo integrato e duraturo del territorio, non solo in mera logica di profitto, di business, di aumento del pil, ma come fine di benessere degli individui in particolare, e della società in generale. Pianificazione e progettazione culturale integrata possono costituire una risposta valida per il destino delle realtà urbane, e generare valore aggiunto, a livello economico-produttivo solidale e a livello sociale, mettendo in moto energie e sinergie. E poi altrettanto vero che la cultura genera propensione agli scambi, apertura, gusto della scoperta e dell’innovazione. E che gli scambi commerciali non possono prescindere dal dialogo interculturale: piattaforma minima indispensabile per il raggiungimento di una permanente convivenza pacifica tra i popoli, che sia veramente libera e solidale. Ma, evidentemente, questi temi hanno difficile recepimento a livello della nostra Regione, certamente in controtendenza rispetto, ad esempio, a Molise e Puglia, dove sulla cultura si scommette per il futuro. Un esempio dell’incuria annosa e del ritardo della Regione è rappresentato, ad esempio, dal lento spegnersi dell’”Abruzzo Film Commition”, ignorata dagli stessi enti istitutivi, portata ad estinguersi per lenta inedia, senza tener conto degli introiti, diretti ed indiretti, portati nella casse regionali dalle analoghe commissioni in Puglia, Piemonte, Lazio e Toscana. Di recente, Giovanni Bazzoli, ci ha ricordato (ma non ne avevamo bisogno), il privilegio straordinario di cui godiamo noi italiani, per il fatto che le generazioni da cui siamo stati preceduti nei secoli, nonché il Creatore, ci hanno consegnato un ambiente così permeato di bellezza e di poesia, così ricco di valori storici, culturali e artistici, che noi e i nostri figli, vivendo in tali luoghi, respiriamo e ci nutriamo di questi beni quasi senza rendercene conto. Sicchè, nel nostro Paese, ci dovremmo sentire obbligati a destinare una frazione degli utili alla difesa e alla valorizzazione di tale patrimonio. E, per un po’, questo è accaduto. È stata infatti una nobile e consolidata prassi, scritta nella storia delle banche italiane, dall’Umanesimo al Novecento, a integrazione della loro funzione istituzionale di supporto allo sviluppo economico del Paese, quella di concorrere alla promozione civile e culturale della nazione, con una peculiare. Una prassi negli ultimi tempi molto disattesa, anche da Banche con specifiche vocazioni locali. Così, senza sostegno né pubblico, né privato, la cultura langue e muore, in un’Italia sempre più abbandonata al gorgo generico della disperante e mortifera incultura (a partire dalle scuole). Giorgio Bocca, livido e lucido analista di questa Italia di contraddizioni, morto in questi giorni a 91 anni, pur criticando certe neghittosità del Sud, affermava che la cultura del Mezzogiorno è il bene supremo di questa Nazione. Il 20 novembre, in Olanda, gli “amanti della cultura” hanno manifestato in 70 città del paese con un grido simultaneo per denunciare il progetto del nuovo governo di portare l’iva sugli biglietti degli spettacoli dal 6 al 19 per cento e ridurre di 200 milioni di euro i fondi del ministero della cultura. In Italia, invece, nessuno protesta, a parte gli addetti al lavoro, se cala il sipario sul spettacolo e cultura. Non serve certo lo spessore di uno statista navigato per comprendere che senza saperi, istruzione, cultura, ricerca, innovazione, solidarietà, confronto, non si va proprio da nessuna parte. Ed è per questo che occorre essere pronti a mobilitarsi dalla parte di Centi, per difendere le istituzioni musicali e quelle culturali nel nostro territorio. E questo perché è importante sentire il profumo di una cultura straordinaria, anche quando non la si comprende a pieno, quando non la si possiede totalmente, in quanto la cultura è quello che di più caro ci è rimasto e va difesa sempre, in ogni circostanza. Sempre l’ostico, diretto, appassionato Bocca, citando i suoi autori preferiti (Pavese e Fenoglio, Levi e Fitzgerald), soleva dire che senza cultura non si ha identità e si è più vulnerabili e più fragili. E, nelle sue esternazioni più recenti, soprattutto su l’Espresso, esprimeva grande dolore e pessimismo per il destino del nostro Paese, che non investiva più nulla sulla sua identità e cultura. Nello stato in cui, Nazione e Regioni, lasciano la cultura, viene oggi da in quale misura è garantito l’articolo 9 della Costituzione che recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Miche Trimarchi, ordinario all’Alma Mater di Bologna, qualche tempo fa, in un saggio dal titolo emblematico (“L’economia fa bene alla culura?”), ci ricordava che, a partire dagli anni Sessanta la questione è all’ordine del giorno di un gruppo non troppo numeroso ma molto appassionato di studiosi internazionali. Alla radice, la percezione che i bilanci pubblici non siano illimitati (oggi va molto peggio, anche da questo punto di vista) e che le organizzazioni culturali debbano saper fare di conto, amministrandosi come piccole e medie imprese anziché come strutture informali in cui si fa molta poesia ma poco reddito. Ma da qui ad amministrare il nulla, ne passa di distanza. Ora, la cultura che gli economisti (ed i politici) prendono, di solito, in esame, è fatta di musei e monumenti, di teatri e libri. Tutti luoghi esclusivi, di rara frequentazione, cui è complicato accedere come consumatori, quasi impossibile partecipare come produttori di contenuti. Certo, è ancora questo il paesaggio culturale che ci troviamo di fronte, soprattutto nelle città italiane, magnificamente decorate da beni architettonici e artistici di unico pregio, e spesso gravate per questo motivo dell’onere di attrarre turisti internazionali, imprese desiderose di investire in Italia, consenso mondiale. Ma, vale la pena ricordarlo, la presenza di beni culturali nel territorio e la conseguente attrazione di turisti stranieri rientra per molti versi in una visione post-agricola del nostro Paese che, incapace di far altro, offre alla pubblica ammirazione i propri gioielli di famiglia in cambio di valuta forte. Passati i decenni continuiamo a essere visitati (e congestionati) da frotte di turisti internazionali, che però mano a mano percepiscono il contrasto incomprensibile tra la bellezza e l’importanza del nostro patrimonio culturale da una parte, e l’assoluta carenza di infrastrutture, servizi, itinerari e tecnologia, cosa che viene liquidata nei casi più benevoli come folclore, ma in una proporzione crescente di casi genera la semplice scelta di andare altrove. In questo modo, e nel volgere di pochi anni, abbiamo perduto due ormeggi che ci rendevano tranquilli e ci sembravano poter funzionare senza attriti e per sempre: il sostegno pubblico incondizionato e il consenso della platea internazionale generato dalla meraviglia per la cultura italiana. Al contrario, nel corso del tempo il sostegno pubblico è stato progressivamente ridotto, soprattutto a livello statale, e comunque è stato rimescolato spesso a vantaggio di “eventi” e di effetti speciali di vario genere. E i turisti, insieme agli italiani, hanno mostrato interesse per Paesi che noi snobbavamo a causa di un’offerta culturale meno importante (secondo noi) e che però hanno saputo investire nell’accoglienza, nella logistica, nel piacere della visita, e hanno vinto la scommessa. Nonostante, poi, te il convincimento di rappresentare un avamposto di qualità, il settore culturale percepisce con crescente evidenza che le direzioni della società sono altre e che i meccanismi tradizionali e consolidati del produrre e distribuire cultura risultano quanto meno obsoleti rispetto alla varietà cangiante di mezzi di creazione, produzione e scambio di prodotti legati alla conoscenza: basti pensare, per tutti, ai settori del design industriale e della moda che, forti di efficaci canali di distribuzione di massa, entrano di fatto in tutte le case con idee creative, nuovi materiali, forme inedite. Ciò che di fatto, in questo stato complesso e contraddittorio, va tenuto presente, è che attualmente il mondo è cambiato e ha avuto modo di revocare in dubbio tutti i pilastri dimensionali e monetari dell’economia borghese. Scambi e valori continuano a essere determinati nel mercato, ma è proprio questo a mostrare connotati nuovi e a dare crescente rilevanza ai profili qualitativi della nostra vita quotidiana. Basti pensare, per tutti, all’inversione di tendenza nelle scelte alimentari delle famiglie, che gradualmente sostituiscono la varietà di una tavola alimentata dai mercati internazionali con la qualità del cibo a chilometri zero; la frutta esotica sparisce dalla tavola, e al suo posto si sceglie la frutta di stagione coltivata nelle vicinanze. Questa combinazione di consapevolezza e qualità diventa la traccia che governa le nostre scelte in una molteplicità di campi. Pertanto, ciò che va consegnato ai politici, è la convinzione che la cultura svolge una funzione ben più importante che non quella di generare reddito monetario. La stessa scala dei valori è fortemente condizionata dalle idee creative e dalla capacità decorativa (e pertanto rappresentativa) degli oggetti e delle attività. Superando dunque la consueta visione gerarchica che vede primeggiare il mercato e mette lo stato nella condizione di stampella finanziaria per le organizzazioni “incapaci” di portare il proprio bilancio in pareggio, la cultura appare oggi al centro di un reticolo molteplice di relazioni: individui, comunità di diverse dimensioni, imprese e altre organizzazioni traggono dalla cultura (ossia, dall’esistenza, dalla produzione e dalla distribuzione di cultura) benefici altrimenti impossibili da conseguire, benefici infungibili e qualitativi. E non basta, poiché il vero e insostituibile beneficio che la cultura produce per la società, e in particolare per le sue componenti più dinamiche e attive, è il motore dell’innovazione. La creatività non è una merce che si possa impacchettare e scambiare. È piuttosto un modo di essere, un’atmosfera positiva che si può riscontrare in alcuni luoghi e in alcuni periodi. La Firenze del Rinascimento, ricca tanto da poter attrarre talenti eccellenti e da poterne realizzare le idee e i progetti, non dura in eterno, e così la Parigi dell’alta moda o la Milano del design industriale. Si tratta di ondate, scaturite da un germe di varia natura (un principe illuminato, così come la prossimità con i mercati di sbocco o la connessione tra produzioni eterogenee) e cresciute moltiplicandosi per attrazione e incremento, per fertilizzazione e diffusione. Su questo occorre riflettere e questo va diffuso e difeso se vogliamo, in futuro, Natali meno tristi e più frizzanti di speranza.
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