Tre grandi, rinascita e bellezza
L’Aquila – (di Carlo Di Stanislao) – Curata da Gabriele Simongini, Arche’, mostra che ha aperto i battenti il 30 novembre e durerà sino al 21 dicembre presso la basilica di Collemaggio de L’Aquila, vuole colmare i vuoti lasciati dal terremoto partendo proprio dal luogo simbolo della citta’: la splendida chiesa colpita dal sisma. Le opere esposte sono dei maestri Bendini, Boille, Mariani, Turcato, che con sette splendidi quadri, offrono la propria appassionata testimonianza a sostegno di una città ancora lacerata. L’evento e’ stato realizzato con il sostegno del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale Por-Fesr 2007-2013 ”Attivita’ VI.I.3” dell’Assessorato alle Politiche Culturali – Servizio Politiche Culturali della Regione Abruzzo e promosso dalla Regione Abruzzo – Servizio Politiche Culturali e dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale – Comunita’ Europea, con il patrocinio del Comune a e dell’Arcidiocesi dell’Aquila. L’esposizione è stata organizzata da “Comunicare Organizzando”, in collaborazione con l’Associazione Culturale ”L’Angelo Ribelle”. Il termine archè, che da il nome alla mostra, attiene ad un concetto molto ampio e viene utilizzato dai primi filosofi sotto tre diverse prospettive, o tre significati, anche se strettamente collegati tra loro: principio generatore, elemento fondante e legge cosmica. Da questo termine discende archetipo, termine usato, attualmente, per indicare, in ambito filosofico, la forma preesistente e primitiva di un pensiero (ad esempio l’idea platonica); in psicoanalisi, da Jung, ed altri autori, per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio umano; per derivazione in mitologia, le forme primitive alla base delle espressioni mitico-religiose dell’uomo e, in narratologia, i metaconcetti di un’opera letteraria espressi nei suoi personaggi e nella struttura della narrazione; in linguistica, da Jacques Derrida, per il concetto di “archiscrittura”: la forma ideale della scrittura preesistente nell’uomo prima della creazione del linguaggio e da cui si origina quest’ultimo. L’archetipo è inoltre utilizzato in filologia per indicare la copia non conservata di un manoscritto (l’originale) alla quale risale tutta la tradizione (le copie del manoscritto originale). La mostra aquilana, quindi, si propone una narrazione sui principi fondanti dell’umano sentire, con una gusto di ricerca filologica ed estetica, attualizzata ed adattata al presente. Bendini, Boille, Mariani, Turcato, sono organizzati (ed “esposti”), in modo da riferirsi all’idea di Fromm di utilizzare gli archetipi per dimostrare l’esistenza di bisogni umani fondamentali, che è possibile definire positivamente e che tramite essi dimostrano di travalicare ogni differenza culturale. Con il concetto di archetipi si amplia l’ inconscio individuale in inconscio collettivo, il contenitore simbolico che riunisce in un processo dinamico ogni individualità. Possiamo immaginare l ‘inconscio collettivo come un grande fiume che tocca ogni sponda, e che in se’ contiene tutto ciò che era presente alla sorgente. Così i sette capolavori in mostra con l’eccellente cura di Simongini, dimostrano che l’ energia archetipica si esprime in ogni esperienza umana: si evolve da una matrice innata ed inconscia, si manifesta come simbolo o come immagine, ed in seguito come sentimento ed emozione. Le emozioni comprendono dolore, amore, entusiasmo, passione, estasi ecc. e costituiscono ciò che dell’archetipo affiora, il livello più cosciente dell’energia archetipica. E, nei dipinti, in foggie e forme differenti, ricorre soprattutto l’idea urobolica di morte-rinascita, che indica i momenti di passaggio nella vita di ciascuno e viene espresso con immagini di morte (del sognatore o di altri personaggi), con i riti e gli oggetti ad essi connessi, con danze e canti, con sensazioni di dolore, di pena o di coraggio e volontà ed con altre situazioni più sfumate, ma che sempre si rifanno a questi presupposti di fine-inizio. Ma, nei quadri, con sensibilità, plasticità e cromatismi diversi ed intricanti, l’archetipo di morte- rinascita contiene in se’ il germe della trasformazione e della rigenerazione. L’individuo non è più lo stesso perchè l’esperienza della morte lo ha cambiato e perchè il dinamismo, coraggio, fede o anche solo forza d’inerzia che lo hanno spinto avanti, sono già il cambiamento, sono una forza vitale di propulsione che incide profondamente i suoi comportamenti e la sua carne. Come ha scritto Emelire Zolla, poiché la vita, con i suoi drammi è irriferibile, per discuterne occorre ricorre ad archetipi, come sapevano Tolstoj ed i grandi narratori russi del’800 e come, in pittura, hanno fatto i grandi astrattisti. Mi piace qui ricordare che, secondo lo Zen, la variante piú avanzata del buddhismo, che esercitò una profonda influenza sulla cultura cinese e, soprattutto, su quella giapponese, la verità si trasmette al di fuori delle scritture, vale a dire al di là del segno e del condizionamento operato dagli elementi materici sulla libera espansione ed espressione dell’anima nel contesto naturale del mondo. Pertanto, in obbedienza a tale dettato etico-estetico, ecco la condensazione, la concentrazione, la semplificazione delle forme espressive apportate dal gusto Zen a tutta la produzione artistica e artigianale, nipponica in particolare, estendendole finanche alle ordinarie occorrenze della quotidianità domestica e sociale, come ad esempio nella cerimonia del thè e nel misogi, il bagno purificatore. In poesia, l’haiku rende l’emozione del poeta condensata in poche sillabe, in architettura, i cosiddetti “giardini della contemplazione”, sgombrati di ogni inutile orpello visivo e decorativo, tendono a far raggiungere il wabi, quell’ideale Zen di bellezza e di armonia volto al distacco sensoriale, alla meditazione estatica e al diletto animico, per cui chi contempla è in grado, attraverso il percepire puro, di accedere al mondo degli archetipi. Tornando alla mostra aquilana, essa ci invita a riflettere sul fatto che il segno è archetipo concretizzato, traccia e dimostrazione che la vita è “viaggio eroico”, che va affrontato e vissuto con fiducia, autonomia, amore, coraggio, creatività, determinazione, consapevolezza, gioia, fede. Le opere di Bendini, Boille, Mariani, Turcato, sono una un richiamo verso la scoperta di un mondo che noi sappiamo esistere al di là delle illusorie apparenze e delle convenzioni sociali e che, grazie ad esso, è sempre possibile rialzarsi e ricostruire, in ogni circostanza, anche la più nefanda e luttuosa. E non è un caso, io credo, che sette siano le opere in esposizione, poiché il sette è, nella numerologia sacra, un numero illusivo, che contiene veli che devono essere scoperti, uno dopo l’altro, per arrivare all’illuminazione ultima. L’Apocalisse, che rappresenta il Gesù celeste come un agnello con sette corna e sette occhi “che sono gli spiriti di Dio inviati in tutta la terra” (5:6) è una multiforme rielaborazione di vecchie tradizioni, che ci inducono, tutte, a ritenere sacro soprattutto il numero sette. Dio è suono, che produce la musica delle “sette sfere celesti” citate da Platone e, pertanto, il sette è il suono della rinascita, sempiterna nell’uomo. Il numero sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta un ciclo compiuto e dinamico. Considerato fin dall’antichità un simbolo magico e religioso della perfezione, perché era legato al compiersi del ciclo lunare. Gli antichi riconobbero nel sette il valore identico della monade in quanto increato, poiché non prodotto di alcun numero contenuto tra 1 e 10. Presso i babilonesi erano ritenuti festivi, e consacrati al culto, i giorni di ogni mese multipli di sette. Tale numero fu considerato simbolo di santità dai Pitagorici. I Greci lo chiamarono venerabile, Platone anima mundi. Presso gli Egizi simboleggiava la vita. Il numero sette rappresenta il perfezionamento della natura umana allorché essa congiunge in sé il ternario divino con il quaternario terrestre. Essendo formato dall’unione della triade con la tetrade, esso indica la pienezza di quanto è perfetto, partecipando alla duplice natura fisica e spirituale, umana e divina. É il centro invisibile, spirito ed anima di ogni cosa. Il Sette è il numero della piramide in quanto formata dal triangolo(3) su quadrato(4). Quindi il sette è l’espressione privilegiata della mediazione tra umano e divino.
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